giovedì 5 settembre 2024

Il demoniaco teorema di Pitagora

Questa estate, ascoltando un noto quiz televisivo, uno dei concorretti ha affermato che il 3 è un numero perfetto. L'affermazione, per quanto non sia errata, non è nemmeno esatta: dipende essenzialmente dal contesto. In un contesto religioso, mistico, simbolico, il tre, per esempio per i cinesi, rappresenta la totalità del cosmo, costituita da cielo, terra e uomo. Senza dimenticare tutte le trinità presenti nelle religioni di mezzo mondo, senza dimenticare Ecate, dea della magia, degli incroci e dell'oscurità, dalla triplice natura di giovane, matura e anziana.
Se restiamo nell'ambito dell'antica Grecia, ci troviamo di fronte a due differenti visioni dei numeri perfetti. La prima, matematica, che probabilmente ci deriva da Euclide, che recita che un numero è perfetto se coincide con la somma dei suoi divisori. In questo caso 3 non è un numero perfetto, ma 6 lo è. In questo caso lo stesso Euclide, raccontando il suo ragionamento in termini del simbolismo moderno, affermò che se \(2^p -1\) è un numero primo, allora \(2^{p-1}(2^p-1)\) è perfetto. E infatti se \(p=2\) segue che 6 è perfetto.
Secondo i pitagorici, invece, il 3 è perfetto essendo la somma di 1, il primo dei dispari, e di 2, il primo dei pari, unendo quindi queste due famiglie insieme. In effetti possiamo osservare anche come 3, in quanto somma di 1 e 2, è un numero triangolare, come il 10, che in un certo senso potremmo considerare il primo numero triangolare scoperto nella storia della matematica, ovvero il tetractys di, appunto, i pitagorici, per i quali aveva una grande importanza simbolica.
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Il tetractys, ovvero il numero 10 - via commons
Quando però pensiamo ai numeri in termini moderni è raro che ci soffermiamo alla loro storia, a ciò che essi simboleggiavano per i primi matematici, come appunto erano i pitagorici. E questa loro interpretazione mistica e simbolica della matematica ha coinvolto anche il risultato più noto della loro scuola, sebbene non sia direttamente ascrivibile al loro fondatore, ovvero il teorema di Pitagora.
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L'omonimo libro di Paolo Zellini edito da Adelphi parte proprio da qui, dal senso al tempo stesso divino e demoniaco del teorema, sviluppando un percorso al tempo stesso filosofico e matematico, in cui la prima e più immediata considerazione sia come Pitagora e la sua scuola, proprio per quel che riguarda la filosofia come disciplina scolastica, siano sostanzialmente ignorati, nonostante le loro idee abbiano influenzato i due più studiati filosofi greci, Aristotele e Platone.
A queste considerazioni di ordine filosofico, si aggiunge poi un discorso squisitamente geometrico, che poi è quello che inevitabilmente viene sviluppato ogni volta che si affronta questo famigerato teorema. E' interessante, in questo senso, come mi abbia spinto a rivalutare, in termini un po' negativi devo dire, le dimostrazioni senza parole che spesso si trovano in giro, sviluppate in particolare nel XX secolo, soprattutto come "divertimenti intellettuali" dei matematici seri. Queste dimostrazioni, nella pratica, riprendono come idee i diagrammi presenti nei trattati della matamatica greca, ma anche di quella vedica o egizia, dimenticandosi, però, che in quei trattati venivano descritti. In un certo senso si raccontava, intorno a essi, una storia, che inevitabilmente noi abbiamo perso, con l'idea illuministica di una scienza tutto sommato utilitaristica e sganciata dall'essere umano nella sua interezza.
E in effetti tutto il testo di Zellini, che comunque traccia una storia abbastanza completa, per quanto costituita di spunti, del teorema e della sua fondamentale importanza nella matematica (da questo punto di vista si finisce la lettura avendo quasi la sensazione che tutto è iniziato proprio da lì), sembra progettato proprio per muovere una critica alla matematica moderna, che tutta concentrata sui formalismi analitici, ha dimenticato molti aspetti essenziali, anche "mistici", e quindi umani, della disciplina.
Testo di lettura veloce, considerando la brevità e la chiarezza di molti dei passaggi, presenta un piccolo difetto: le parole del greco antico, infatti, vengono proposte al lettore scritte con l'alfabeto corrispondente, senza alcuna possibilità di poterle leggere. Questo, almeno personalmente, ha generato rallentamenti all'inizio e poi in alcuni passaggi alcuni momenti di perplessità, in particolare con parole che non venivano per nulla spiegate (poche, in effetti). Questa scelta filologica, adottata però solo con il greco antico (e quindi a maggior ragione ci si chiede perché farlo, visto che ormai la maggior parte della popolazione è già tanto se ha studiato il latino), rischia di essere un ostacolo alla lettura, spingendo il lettore medio ad abbandonare il testo già al primo capitolo.
Forse è una scelta voluta, forse l'autore non voleva un testo per tutti, il problema è che persino un matematico potrebbe decidere di abbandonare il testo, nonostante le interessanti idee proposte all'interno.

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