La storia
Siamo nel 2084. L'ultima guerra mondiale ha eliminato qualunque forma di vita sulla Terra. Solo un gruppo di esseri umani è riuscito a fuggire proprio sul finire della guerra per stabilirsi su Marte. Per poter sopravvivere sul pianeta rosso, però, o si hanno a disposizione sistemi che permettono di produrre le risorse in loco, o si resta in qualche modo legati con la madre patria. Ed è in questa seconda situazione che ricade la colonia marziana di The Dream Sequencer, come racconta l'ultimo colono rimasto su Marte nella title track.L'uomo, in realtà nato su Marte dai primi coloni, non ha mai vissuto sulla Terra, come ricorda all'inizio di My House on Mars, seconda canzone dell'album:
You promised you'd return and take me to EarthQuesta, in realtà, è una frase che l'uomo disse al padre nella sua infanzia: la caratteristica della prima parte di Universal Migrator è, infatti, un susseguirsi di ricordi della vita passata dell'ultimo colono marziano. Questi vengono riportati alla memoria utilizzando un particolare macchinario, il dream sequencer del titolo della prima parte. Il macchinario, però, va anche oltre le aspettative dell'utilizzatore: il sognatore, infatti, inizia a rivivere le sue vite passate, andando sempre più indietro fino a The First Man on Earth.
Di tutta questa sfilza di vite passate, però, noi ci occuperemo dell'ultima in ordine temporale, quella su Marte.
Un mondo di rocce e polvere
E' con queste parole che l'ultimo colono di Marte definisce il suo pianeta in un verso che è un'invocazione alla madre:
Mother did you hear me cry?D'altra parte Marte è un pianeta sostanzialmente desertico, la cui superficie è spazzata da forti venti che periodicamente rendono ancora più complicata la sopravvivenza sul pianeta e le comunicazioni con la Terra, come ben sappiamo grazie ai molti rover che abbiamo spedito là sopra, incluso l'ultimo arrivato, Perseverance.
You never told me why
You put me in this world of rock and dust
Torniamo a Lucassen: è interessante come in My House on Mars, struggente canzone interpretata da Johan Edlund e Floor Jansen, il protagonista faccia un riferimento molto chiaro al genere di struttura all'interno della quale vive su Marte:
Is this my home? - this is our homeL'idea di una città sotto la cupola, almeno nel concetto che viene in mente un po' a tutti, sembra sia presente in Three Hundred Years Hence di William Delisle Hay. Il romanzo, del 1881, racconta di città costruite sotto gli oceani e protette dall'enorme pressione esercitata dall'acqua da gigantesche cupole di vetro. In questo modo la superficie della Terra del futuro può essere impiegata per la coltivazione.
This desolate dome - this desolate dome
Il concetto venne utilizzato dagli autori di fantascienza per lo più per descrivere soluzioni in grado di proteggere gli esseri umani dall'inquinamento dell'aria o da altre distruzioni ambientali. In altri casi, invece, diventa un modo per controllare la popolazione. In quest'ultimo caso la cupola stessa porta in se implicazioni negative nei confronti del mondo esterno.
Come molte idee interessanti, anche questa viene presa dalla scienza e rielaborata per scopi pratici. L'inizio della discussione sulla fattibilità di una città sotto una cupola risale al 1960, quando l'ingegnere Buckminster Fuller descrisse una cupola geodetica di 3 km da costruire a Midtown Manhattan con l'obiettivo di regolare il tempo, riducendo così l'inquinamento atmosferico. Proposte simili sono state avanzate anche per Winooski nel Vermont nel 1979 e per Houston in Texas nel 2010.
E' stato anche portato avanti un esperimento che andava in questa direzione, Biosphere 2, su cui spesi qualche parola. Nato tra il 1984 e il 1991, venne effettivamente realizzato a nord di Tucson in Arizona dalla compagnia privata Space Biospheres Ventures. La prima missione partì il 26 settembre del 1991 con un "equipaggio" di otto persone impiegato per due anni a vivere all'interno di un ambiente controllato e progettato per sostenere la loro sopravvivenza attraverso l'autosostentamento. Fondamentalmente l'idea dell'esperimento era quella di comprendere la sostenibilità di un ambiente mancante della maggior parte della varietà presente sulla Terra, la biosfera principale, e le possibilità di sopravvivenza degli esseri umani in una situazione quindi molto simile a quella che si potrebbe incontrare su un pianeta differente dal nostro.
A parte un altro paio di proposte per la Terra, quella più interessante, perché va esattamente nella direzione immaginata da Lucassen in My House on Marse, è quella del 2017 avanzata da un gruppo di studenti e di postdoc del MIT per una città sotto la cupola su Marte. Questa la descrizione che ne fa Valentina Sumini, responsabile insieme con Caitlin Mueller del progetto multidisciplinare proposto:
On Mars, our city will physically and functionally mimic a forest, using local Martian resources such as ice and water, regolith (or soil), and sun to support life. Designing a forest also symbolizes the potential for outward growth as nature spreads across the Martian landscape. Each tree habitat incorporates a branching structural system and an inflated membrane enclosure, anchored by tunneling roots. The design of a habitat can be generated using a computational form-finding and structural optimization workflow developed by the team. The design workflow is parametric, which means that each habitat is unique and contributes to a diverse forest of urban spaces.E così, come tutti i bravi scrittori di fantascienza, Arjen Lucassen è stato in grado di anticipare la direzione delle proposte per vivere permanentemente su Marte. L'unica differenza con gli scrittori classici di fantascienza è che invece di scrivere romanzi, scrive concept album di genere progressive metal.
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