Dopo Il complotto di Will Eisner, quest'anno ripropongo una recensione di Maus di Spiegelman. In questo caso, invece di modificare quella già esistente, l'ho riscritta mantenendo alcune parti e aggiungendone qualche altra.
Gli animali sono stati, sin dai tempi dell'Antica Grecia, il miglior veicolo per raccontare storie che contenessero una morale. Sono proprio nelle fiabe e nelle favole che si incontrano i primi animali con comportamenti e posture umani, e sono proprio gli animali che, nel 1945, sono protagonisti di una sorta di favola, un romanzo di critica politica come La fattoria degli animali. In questo caso George Orwell utilizza gli animali di una fattoria in una maniera sì allegorica e metaforica, ma sufficientemente esplicita da incorrere nelle censure e nelle difficoltà di pubblicazione:
If the fable were addressed generally to dictators and dictatorships at large then publication would be all right, but the fable does follow, as I see now, so completely the progress of the Russian Soviets and their two dictators, that it can apply only to Russia, to the exclusion of the other dictatorships.Persino la scelta della casta dominante, i maiali, viene considerata una pessima scelta, nonostante sia, evidentemente, ben ponderata, un po' come quella compiuta da Art Spiegelman in Maus, dove gli ebrei vengono rappresentati come topi, i polacchi come maiali e i tedeschi come gatti. Maus, infatti, racconta, mescolando l'autobiografia dell'autore con il racconto orale del padre, vecchio e indurito dalla guerra, le difficoltà di essere ebreo prima e durante la Seconda Guerra Mondiale nell'Europa centrale. A differenza di Orwell, però, Spiegelman non nasconde nessuno dietro personaggi fittizi, o dietro metafore: l'unica metafora è la rappresentazione stessa degli esseri umani, e quella scelta in particolare di gatti e topi sembra suggerire l'inevitabilità dell'odio e dell'avversione. Non solo: la stessa scelta di rappresentare ciascun popolo protagonista di Maus con animali differenti sembrerebbe rinforzare più che criticare il punto di vista nazista, come suggeriscono Hillel Halkin (grazie a una sorta di doppia de-umanizzazione) o Harvey Pekar (che vede tali rappresentazioni come un rafforzamento degli stereotipi). D'altra parte quella suddivisione netta del mondo non viene apprezzabilmente modificata nelle scene ambientate nel presente, e se poi notiamo come nella seconda parte gli animali antropomorfi si trasformano in esseri umani con una maschera, quindi si trasforma la razza nazista in una scelta consapevole (per quanto magari imposta dalla nascita, come nel caso dell'autore), questa scelta stereotipata si trasforma come un messaggio importante al lettore, un suggerire come, nonostante la guerra, nonostante gli orrori, il mondo non sia apprezzabilmente cambiato, come sia rimasto sostanzialmente chiuso in gruppi ristretti che si nascondo dietro maschere più o meno tradizionali. E quasi a conferma di ciò ci sono le parole dell'autore, che ha affermato che queste metafore ... sono destinate ad auto-distruggersi e rivelano l'inanità della nozione stessa di etnia.
In ogni caso, al di là di tutti i discorsi accademici o delle varie possibili interpretazioni, mi piace concludere con le parole di Guglielmo Nigro, quelle stesse con cui conclude la sua recensione di Maus su LSB:
La personalità di Art Spiegelman, le sue infinite sigarette, le sue angosce personali (la madre suicida viene rappresentata con infinita tristezza e crudezza proprio in Maus), la sua acutezza mentale, la sua intelligenza sono un altro monumento (non voluto) all'uomo in crisi di fine millennio, ricolmo di rabbia inesplosa e di impotenza di fronte a una società incomprensibile.
Vincitore del Premio Pulitzer (il primo dato a un’opera a fumetti), studiato nelle scuole, testimoniato dallo stesso autore in mille e mille interventi e conferenze, Maus è Art Spiegelman, come Art Spiegelman sembra essere Maus. Sono la verità e l'onestà, che fanno di questo romanzo un capolavoro unico della fine del Novecento, un'opera da conservare come un regalo prezioso.
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