Marte rappresenta da sempre una suggestione per gli esseri umani. Il rapporto è sempre stato piuttosto conflittuale: si va da La guerra dei mondi di Wells al ciclo di John Carter di Burroughs, a tutta una serie di film spesso inquietanti dove Marte rappresentava più una minaccia che una possibilità. Anche la scienza, per un certo tempo, alimentò questa supposizione: Schiaparelli, ad esempio, teorizzò la presenza di canali artificiali sulla superficie del pianeta rosso a causa di alcune osservazioni errate frutto di un semplice effetto ottico.
L'idea di Ian Watson per il nuovo pericolo proveniente da Marte è, invece, molto più simile a quella di altri romanzi della fantascienza di genere, però, terroristico: in questo sottogenere si suppone che, da un laboratorio segreto da qualche parte sul pianeta, sfugga un virus letale che inizia a propagarsi tra la popolazione, mietendo vittime a ogni piè sospinto. A questo punto la sfida diventa tra gli apparati governativi, che sfruttano l'occasione per realizzare un esperimento sul campo, spingendolo fino alle estreme conseguenze, e un gruppo di eroi senza macchia che cercano, invece, di fermare l'epidemia prima che si espanda irreversibilmente. In questo caso l'epidemia viene trasportata sulla Terra da Marte, a bordo di una sonda russa, che trasporta, ignara, una forma di vita aliena piccolissima che si attacca al corpo ospite in un rapporto simbiotico particolare, che esalta le caratteristiche del cervello umano. Nel bene, ma anche nel male.
Alla fine Gli dei invisibili di Marte mescola elementi di politica, riscatto sociale e approfondimento psicologico alla Stanislaw Lem, risultando però monco, come se fosse stato concluso un po' frettolosamente o come se fosse l'inizio di una serie mai proseguita.
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