A partire dal quarzo, i vetrai veneziani (e un po' tutti quelli del mondo) producevano una poleve bianca, silice, alla quale successivamente veniva aggiunta una certa quantità di soda, usata per abbassare la temperatura. La soda migliore era quella proveniente dalla Siria e dall'Egitto e veniva prodotta a partire dalla cenere di alghe o anche dall'allume catino. Per rendere il vetro prodotto con questa mistura il più trasparente possibile, bisognava usare il manganese, acquistato soprattutto in Piemonte. Questi ingredienti finivano nel forno della vetreria, a una temperatura di circa 1500 gradi: la massa informe così prodotta veniva poi modellata nelle forme richieste dai clienti e con un grado di trasparenza assolutamente inimitabile, in grado di realizzare giochi di luce tali da costringere i pittori a utilizzare grandi quantità di colore per riprodurli al meglio sulla tela.
A questo punto, seguendo il volo poetico presente ne Il codice di Newton di Rebecca Stott, si potrebbe immaginare che una partita di questi meravigliosi cristalli di Murano sotto forma di piccoli prismi sia partita alla volta della Gran Bretagna, magari per essere venduti su un qualche banchetto della fiera di Stourbridge vicino a Cambridge. Magari nel 1665 quando, tra i suoi stand girava un tale alla ricerca di strumenti per verificare le teorie sull'ottica di René Descartes: il suo nome, come avrete già immaginato, era quello di Isaac Newton.
La scomparsa del bianco
Il 1664 per Newton fu un anno importante, iniziato, dal punto di vista osservativo, con il passaggio di una cometa nel cielo di Cambridge, mentre il giovane Isaac aveva finalmente ottenuto una borsa di studio presso il Trinity College.Newton, in particolare, era interessato alla luce, più che alla cometa in sé: l'interesse era sorto grazie agli studi di ottica di Cartesio. In particolare quest'ultimo riteneva che la luce fosse una pressione generata da un qualche genere di pressione esterna: quella bianca viaggiava in linea retta, mentre in presenza di rotazioni si tramutava in colore.
Oltre a Cartesio, Newton aveva a disposizione anche una serie di fonti locali, come Robert Boyle e il suo Experimenta et considerationes de coloribus del 1664 e Robert Hooke con Micrographia del 1665. In particolare fu quest'ultimo a colpire Newton: Hooke, infatti, riteneva che
(...) i colori fossero impressioni formate sulla retina da forze diverse di luce pulsante.Con l'idea di dimostrare che Cartesio e Hooke si sbagliavano, nel 1665 iniziò i suoi esperimenti al Trinity.
Erano esperimenti per certi versi piuttosto macabri: Newton realizzò uno spillone di legno spuntato e se lo infilò nell'occhio, osservando come differenti pressioni e punti di pressione ne modificavano la vista. Durante questi esperimenti, descritti anche con un disegno negli appunti dello scienziato, Newton osservò anche la generazione di alcuni piccoli cerchi di colore, e questo lo spinse a un nuovo esperimento: osservare il riflesso del sole in uno specchio. Anche questo esperimento modificò la sua visione: tutti gli oggetti chiari divennero rossi e quelli scuri blu.
Effetti collaterali di questi esperimenti erano i così detti "fantasmi", degli aloni di luce, anche colorata, che persistevano per qualche minuto nella visione di Newton, e che egli era addirittura in grado di richiamare a piacere: bastava semplicemente 'immaginare' le macchie solari al buio.
Per poter recuperare la vista messa sotto stress, Newton fu però costretto a restare per tre giorni al buio: era il 1665, l'anno della grande peste.
Per fortuna Cambridge aveva una una buona amministrazione: John Herring, sindaco dell'epoca, era riuscito a organizzare la città in maniera impeccabile, organizzando lazzaretti all'esterno della città, mentre tutti gli ingressi erano sotto stretto controllo. Gli addetti agli ingressi, poi, disinfettavano i pochi che potevano entrare, mentre tutti i cani e i gatti della città erano stati uccisi: in fondo la peste era stata portata dalle pulci presenti sui topi sbarcati dal continente a Londra. Tutto questo per dire come Newton fu fortunato, in quell'epoca, a poter condurre in relativa tranquillità i suoi esperimenti di ottica: non dobbiamo, infatti, dimenticare che comunque i monatti giravano per la città e che le notizie sulla peste, per quanto si potesse ritenere Newton chiuso in casa per la maggior parte del tempo, non finissero alle sue orecchie. In fondo l'atmosfera dell'epoca era piuttosto apocalittica, con i preti che dal pulpito tuonavano sulla fine del mondo.
In ogni caso i suoi esperimenti ebbero una svolta con l'utilizzo dei prismi: oscurata la finestra maggiormente esposta al sole, vi praticò quindi un foro per permettere il passaggio della luce a mezzogiorno. Dopo averla fatta viaggiare per circa sei metri, questa colpiva il sistema di prismi posto alla fine della stanza e da qui otteneva i colori dell'arcobaleno, quello che nei suoi appunti chiamo spettro, ispirandosi alla terminologia usata per chiamare i fantasmi di luce che persistevano nei suoi primi esperimenti con l'occhio.
Questa scomposizione della luce bianca, insieme con una serie di altri esperimenti, permise a Newton di dimostrare che i colori erano luce che viaggiava a differenti velocità e, soprattutto, che ciascuno di essi era primario: non era quindi la luce bianca a essere perfetta, ma i colori che si componevano tra loro per ottenere il bianco. Era l'ennesimo risultato straordinario della scienza, considerando che ribaltava completamente la credenza che il bianco fosse la perfezione, come avevano dimostrato indipendentemente anche Johannes Vermeer con la camera oscura o i pittori olandesi De Heem e Osias Beert.
Così, mentre la Terra veniva tolta dal centro dell'universo da Copernico, Kepler e Galileo, Newton gli sottraeva un'altra certezza: la purezza del bianco.
La fonte principale di questo breve post, uscito in occasione della Giornata Internazionale della Luce, è il romanzo citato all'inizio del testo. Robecca Stott, però, non è una semplice romanziare, ma una storica che ha effettivamente studiato la figura di Newton.
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