L'opera più esplicitamente critica nei confronti della catena di montaggio è indubbiamente Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, sebbene elementi di critica a questo (per l'epoca) nuovo sistema di produzione erano già presenti in Metropolis, pellicola del 1927 di Fritz Lang, considerato il primo film di fantascienza propriamente detto.
La sceneggiatura del film si basa sul romanzo della moglie di Lang, Thea von Harbou, uscito nel 1925, ma probabilmente in lavorazione già da alcuni anni. Nella quarta di copertina dell'edizione della Newton-Compton uscita nel 1996 all'interno della collana Compagnia del fantastico, si suggerisce che la stesura originale del romanzo risalga addirittura al 1912, quindi leggermente antecedente all'introduzione della catena di montaggio nelle industrie di Ford, o al peggio contemporanea.
Il libro, e così la pellicola, che come scritto ha come tema centrale quello dell'alienazione degli operai, si presenta con un paio di stili differenti: nella prima parte risulta dettagliato nelle descrizioni e nell'approfondimento dei personaggi, mentre nella seconda molto teatrale per ritmo e descrizione delle scene. Tali differenze stilistiche suggerirebbero uno sviluppo del testo in parallelo con la stesura della sceneggiatura da parte della scrittrice insieme con il marito.
La vividezza del racconto, e in particolare dei personaggi, risiede nella capacità della von Harbou di tracciarli con pochi particolari, di caratterizzarli con rara intensità utilizzando pochi caratteri ricorrenti. Dal punto di vista politico, invece, l'alienazione della classe operaia viene spinta alle estreme conseguenze grazie al piano di Fredersen che vuole sostituire gli operai con i robot progettati e costruiti da Rotwang. A tal proposito gioca un ruolo fondamentale la versione robotica di Maria, la ragazza di cui è innamorato il giovane figlio di Fredersen, a un tempo rappresentate della classe agiata, ma anche consapevole della condizione di sfruttamento della classe operaia.
I robot, ideati dallo scrittore ceco Karel Čapek nel 1920 per I robot universali di Rossum, rappresentano la perfetta metafora per la condizione operaia, ma la von Harbou ne coglie, anche se solo timidamente, l'inquietudine che susciteranno nella letteratura fantascientifica del futuro, quando molti suoi colleghi li utilizzeranno per raccontare delle paure insite nello sviluppo di esseri artificiali antropomorfi e dotati di un'intelligenza fredda, distaccata e per certi versi superiore. In questo proprio la descrizione del robot-Maria risulta particolarmente efficace e anticipatrice, anche se il senso ultimo del romanzo risiede in quello che afferma la scrittrice sul suo stesso testo:
Questo libro non è sull'oggi o sul futuro.
Non racconta un luogo.
Non serve una causa, un partito o una classe.
Ha una morale che cresce sul pilastro della comprensione: "Il mediatore tra il cervello e i muscoli deve essere il Cuore."
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