Stomachion

lunedì 7 settembre 2020

Death Note: quando un manga finisce in mano agli americani

Vi ricordate di Death Note? Andatevi a rileggere la lunga recensione che avevo scritto un annetto fa e poi ritornate qui.
Fatto? Allora proseguiamo!
Come per tutti i prodotti di sucesso, anche la creatura di Tsugumi Ōba e Takeshi Obata è uscita fuori dal piccolo mondo della carta disegnata per diventare multimediale, con videogiochi, romanzi, serie animate e ovviamente film. Ovviamente la maggior parte delle pellicole fin qui uscite sono di produzione giapponese, l'ultima delle quali Death Note: Light Up the New World è datata 2016 e quindi ambientata dieci anni dopo la conclusione della storia di Light Yagami. Il franchise è, però, risultato così interessante anche per gli americani che nel 2017 è arrivata una loro pellicola, diretta da Adam Wingard e prodotta da Netflix. Tra gli attori spicca in particolare Willem Dafoe nel ruolo di Ryuk, lo shinigami che "perse" il quaderno sulla Terra.
Gli sceneggiatori della pellicola, Charles e Vlas Parlapanides e Jeremy Slater, provano a riproporre in maniera fedele personaggi e situazioni, apportando però dei cambiamenti di ambientazione, che viene spostata dal Giappone agli Stati Uniti, a Seattle, per la precisione. I due personaggio principali, Light e Misa, vengono americanizzati in Light Turner e Mia Sutton e interpretano il ruolo di Kira come esecutori della pena capitale contro i criminali.
Le premesse per un bel film ci sarebbero anche tutte, il problema risiede, però, da una parte nella caratterizzazione dei personaggi, troppo emotivi rispetto alle controparti del manga (inclusi Light ed L), dall'altra nella poca enfasi concessa alle due visioni del mondo di Kira e di L, che si riduce a un confronto acceso e a carte scoperte all'interno di un bar. Lo stesso Light Turner risulta meno machiavellico di Light Yagami e gli unici elementi di connessione tra i due personaggi sono nelle motivazioni iniziali e nel complesso piano che Turner imbastisce nel finale per salvarsi dalla fidanzata Mia, che aveva scritto il nome di Light sul quaderno.
Nel complesso siamo di fronte a un film sospeso tra la storia raccontata dal manga in una decina e passa di tankobon e la necessità di chiudere la vicenda nello spazio di un unico film, pur lasciandosi la porta aperta per proseguire la serie. E forse, con una scrittura diversa, meno "americana" la cosa sarebbe anche stata possibile. Alla fine, invece, un film che, indipendentemente dalla fedeltà al manga, per quanto gradevole, non riesce veramente a coinvolgere lo spettatore, cosa che è la pecca principale al di là dei pur pregevoli dettagli tecnici.

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