La caduta a spirale dell'elettrone
Uno dei motivi per cui si può tranquillamente affermare che la meccanica quantistica non è semplice da comprendere è che torna più o meno sempre una domanda tipo: come mai l'elettrone non cade dentro il nucleo?La storia inizia con Ernest Rutherford. Se ricordate nella serie delle scoperte, avevamo visto come il fisico neozelandese aveva giocato un ruolo fondamentale nella scoperta del protone.
Rutherford, all'inizio del XX secolo, si trovava a Cambridge presso il prestigioso Cavendish Laboratory diretto da Joseph John Thomson che, dopo aver scoperto l'elettrone nel 1897, aveva proposto il famoso modello a panettone per l'atomo, ovvero una distribuzione di carica positiva con all'interno le cariche negative sparse qua e la come l'uvetta in un panettone. Rutherford, però, nel 1909 conducendo una serie di esperimenti con delle lamine d'oro scoprì che all'incirca una particella alfa su ottomila veniva respinta indietro. Dopo aver ripetuto l'esperimento varie volte, il fisico neozelandese concluse che l'unica spiegazione plausibile per tale comportamento era che all'interno dell'atomo doveva esistere un centro di carica positiva, mentre l'elettrone, la carica negativa, ruotava intorno a tale nucleo. Successivi esperimenti scoprirono che il nucleo occupava un millesimo di miliardesimo del volume dell'atomo con una massa del 99.98%: l'atomo era dunque una immensa distesa di vuoto, proprio come il Sistema Solare.
A causa dell'incredibile fiducia che i fisici riponevano nella meccanica dell'epoca, ovvero nelle leggi che oggi identifichiamo come "fisica classica" sviluppate da Galileo Galilei, Isaac Newton e raffinate da James CLerck Maxwell, nessuno all'epoca si era chiesto come mai l'elettrone non cadesse all'interno del nucleo. In realtà il modello di Rutherford destò l'interesse di Niels Bohr che, nel 1912, si ritrovò a lavorare proprio con Rutherford. La possibilità di accedere ai dati sperimentali del grande fisico, permise al teorico danese di constatare una certa incompatibilità tra il modello di Rutherford e le equazioni di Maxwell: secondo queste ultime l'elettrone avrebbe dovuto perdere energia a ogni giro, ridurre il raggio della sua orbita e finire inevitabilmente all'interno del nucleo in quella che può essere vista come una vera e propria caduta a spirale.
Quindi la conclusione doveva essere una di queste due: o gli esperimenti di Rutherford erano sbagliati o le equazioni di Maxwell non erano lo strumento matematico corretto per descrivere il comportamento di un elettrone all'interno dell'atomo.
Bohr optò per la seconda ipotesi, confortato dai risultati teorici ottenuti da Max Planck e Albert Einstein nel decennio precedente: Niels, infatti, avanzò l'ipotesi che l'elettrone nel nucleo può muoversi solo a determinate orbite. Ciascuna di queste orbite è associata a una diversa energia e l'elettrone può salire a un'orbita superiore solo se acquista un'energia pari alla differenza tra le due orbite, oppure se l'elettrone è su un'orbita superiore, può scendere a quella inferiore rilasciando sotto forma di fotone una quantità di energia pari alla differenza tra i due livelli: nasceva il modello dell'atomo di idrogeno di Bohr.
L'eleganza dell'idea venne accompagnata dalla correttezza dei risultati: il modello di Bohr era in grado di prevedere correttamente tutti i livelli dello spettro dell'idrogeno, ma già quando si provava ad applicare il modello all'elio, modello ed esperimenti non erano più in accordo. Era necessario introdurre qualche nuovo elemento nella faccenda. Il primo nuovo elemento lo introduce Louis de Broglie suggerendo che, così come la luce intesa come onda mostra comportamenti particellari, allora anche le particelle come gli elettroni possono mostrare comportamenti ondulatori. A partire da questo punto, Werner Heisenberg, ritiratosi sull'isola di Helgoland nel Mare del Nord per pensare meglio, elaborò la rappresentazione matriciale della meccanica quantistica che aveva come conseguenza il suo famoso principio di indeterminazione \[\Delta x \Delta p \leq \frac{h}{4\pi}\] Il principio di indeterminazione ha delle conseguenze importanti proprio sulla posizione dell'elettrone nell'atomo: tra tutte le posizioni possibili, quella con l'incertezza più bassa è proprio all'interno del nucleo e questo implica che la quantità di moto dell'elettrone avrebbe un'incertezza pressocché infinita.
Questo modo di intendere la meccanica microscopica, però, risultava oscuro alla maggior parte dei fisici a causa del suo alto livello di astrazione, per cui Erwin Schrodinger, in quella che in qualche modo possiamo considerare una vacanza di lavoro ad Arosa insieme con la sua amante del periodo mentre la moglie Anny si trastullava con il suo amico e collega Hermann Weyl, tirò fuori dal cilindro atomico la sua famosa equazione che rappresentava l'elettrone legato elettromagneticamente al nucleo con la così detta funzione d'onda. Questo risultato sembrava mettere tutti d'accordo, visto che i picchi della funzione coincidevano con le orbite del modello di Bohr per l'atomo di idrogeno e permettevano di fornire previsioni molto più corrette per gli altri atomi. La visione dell'atomo che ne emergeva era, però, molto più sfumata: gli elettroni, infatti, non si muovevano più lungo orbite, ma in quelli che vennero chiamati orbitali, perché erano delle zone di spazio sfumate all'interno delle quali era più probabile trovare l'elettrone.
L'interpretazione probabilistica della funzione d'onda, o per meglio dire del suo quadrato, venne proposta, come sintesi conclusiva dei primi 25 anni della teoria quantistica, dall'ultimo degli allievi di Bohr, oltre che suo quasi omonimo, Max Born. Secondo questa interpretazione, passata alla storia come interpretazione di Copenaghen, l'elettrone intorno all'atomo poteva trovarsi in varie zone differenti intorno all'atomo, ma alcune di queste, come il nucleo, avevano probabilità nulla o quasi, mentre altre, come il guscio sfumato chiamato orbitale, avevano una maggiore probabilità di ospitare l'elettrone(1).
Il colore di una stella di neutroni
Abbiamo visto che il nostro Sole è una stella bianca, ed è solo una delle molteplici colorazioni che possiamo trovare in cielo. Alcuni degli oggetti celesti, però, non sono visibili a occhio nudo, perché emettono troppa poca luce o perché sono troppo lontani. Altri, invece, come le stelle di neutroni non emettono luce visibile, quindi il loro colore non fa parte dell'arcobaleno usuale, dove per colore si da un'interpretazione estesa che coincide con la frequenza della luce emessa.In particolare le stelle di neutroni, che furono ipotizzate nel 1934 da Walter Baade e Fritz Zwicky due anni dopo la scoperta del neutrone da parte di James Chadwick, emettono soprattutto onde radio e radiazione X, i due canali che hanno permesso di scoprire e osservare tali stelle. La prima stella di neutroni riconosciuta come tale venne scoperta nel 1967 da Iosif Shklovsky esaminando i raggi X provenienti da Scorpius X-1. Quello stesso anno Jocelyn Bell Burnell e Antony Hewish scoprirono la prima pulsar esaminando le onde radio provenienti dalla costellazione della Volpetta. Furono però Thomas Gold e Fred Hoyle a identificare la sorgente del segnale radio rilevato come una stella di neutroni in rapida rotazione. Allo stato attuale la maggiorparte delle stelle di neutroni note sono delle pulsar, mentre pochissime sono osservabili nel visibile. A parte le due stelle di neutroni in collisione di cui venne osservata la luce prodotta dopo l'urto, la prima stella di neutroni osservata nel visibile venne scoperta nel 1992 e confermata nel 1996 e sembra avere una colorazione bianca.
Ancora sulle equazioni esponenziali
I quesiti sulle equazioni esponenziali tirano molto. Ad esempio proviamo a risolvere l'equazione $x^{x^x} = x$.Questa equazione presenta due soluzioni. Per vederle possiamo procedere in questo modo: \[x^{x^x} = x\] \[\ln x^{x^x} = x \ln x^x = x^2 \ln x = \ln x\] da cui \[x^2 = 1\] e quindi \[x = \pm 1\] Qualcuno potrebbe obiettare con l'ordine di estrazione degli esponenti. Proviamo, allora, a utilizzare l'estrazione per radice \[\sqrt[x] {x^{x^x}} = x^x = \sqrt[x] x\] Quindi \[x^x = x^{\frac{1}{x}}\] da cui \[x = \frac{1}{x}\] che porta di nuovo a \[x^2 = 1\] che abbiamo già risolto.
Tale risultato è confermato anche da Wolfram Alpha. Inoltre, tra le risposte su quora, è anche presente 0 come possibile soluzione, ma poiché $0^0$ è non definito, questa soluzione va scartata, come conferma lo stesso geogebra chiedendogli di realizzare l'intersezione tra le funzioni $f(x) = x^{x^x}$ e $g(x) = x$.
Il più forte di tutti
Avendo iniziato quest'anno a proporre alcune conferenze sulla fisica dei supereroi all'Osservatorio Astronomico di Brera, la questione se Aquaman è in grado di sconfiggere Superman in un corpo a corpo mi coglie particolarmente interessato.
Il modo migliore per avere un'idea è confrontare i freddi numeri. Parto dall'accelerazione di gravità di Krypton, il pianeta di Superman, che dopo alcuni calcoli ho trovato essere $1200 \, m/s^2$, ovvero i muscoli di Superman sono in grado di sopportate accelerazioni fino a questo valore.Dal canto suo Aquaman è in grado di sopportare senza problemi la pressione presente al di sotto della fossa delle marianne, ovvero i suoi muscoli sarebbero in grado di sopportare una forza di $8,6 \cdot 10^7 \, N$ che, utilizzando un peso per l'eroe di $80 \, kg$, coincide con un'accelerazione pari a $1075000 \, m/s^2$, che possiamo interpretare come la massima accelerazione che i suoi muscoli sono in grado di sopportare.
Quindi, anche se Superman è invulnerabile, Aquaman è potenzialmente in grado di sconfiggere Superman in un corpo a corpo.
- Un modo meno storico di avere la risposta a tutta la faccenda lo trovate su Why do electrons not fall into the nucleus? di Stephen Lower.
Una trattazione un po' più storica, invece, la trovate su Luck, W. A. (1985). Why doesn't the electron fall into the nucleus?. Journal of Chemical Education, 62(10), 914. doi:10.1021/ed062p914.1 ↩
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