Stomachion

sabato 8 dicembre 2018

Scappare, da qualche parte nello spazio

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Con un nome come quello che hanno scelto i fondatori, la band tedesca dei Gamma Ray non poteva non proporre canzoni, rigorosamente power metal, dal fascino scientifico, come ad esempio Somewhere Out In Space. L'idea della canzone è quella di un viaggio tra le stelle, una fuga alla ricerca di un nuovo posto dove vivere. Una situazione, questa, che prima o poi dovremo affrontare, sempre che non ci estingueremo prima o non decideremo di condividere il destino della Terra: venire fagocitata dal Sole.

Il problema principale di abbandonare il nostro pianeta natale è trovare una nuova destinazione. Il candidato più vicino è ovviamente Marte, ma va innanzitutto terraformato, cosa non semplice. A venirci in soccorso però è la ricerca dei pianeti extrasolari, che in questi anni è stata svolta con discreto successo grazie al satellite Kepler che utilizzando il metodo dei transiti ha contribuito per la maggior parte al vasto catalogo costituito da oltre 3000 pianeti scoperti in una porzione di universo relativamente piccola. Ovviamente bisogna in qualche modo determinare se un pianeta è abitabile o meno, ma una volta stabilito ciò il problema al momento più insormontabile è raggiungere tale pianeta. Le navi spaziali che al momento utilizziamo per raggiungere e rifornire la Stazione Spaziale Internazionale sono appena sufficienti allo scopo. Al massimo, con uno sforzo comunque non indifferente dal punto di vista economico, si potrebbe arrivare sulla Luna, ma ancora, nonostante i proclami, Marte è lontano e ancora di più arrivare fino a e uscire da i confini del Sistema Solare (ovviamente utilizzando un equipaggio umano).
Il sogno di esplorare l'universo, però, è comune a molti scienziati, anche ai due pionieri della missilistica: Konstantin Ciolkovskij e Robert Goddard. Mentre il primo scrisse varie opere di fantascienza, tra cui Sogni della terra e del cielo e gli effetti della gravitazione universale dove suggeriva di mettere in orbita un satellite artificiale della Terra, Goddard scrisse The last migration. The notes should be read thoroughly only by an optimist, saggio dal titolo eloquente di cui è disponibile la versione sintetica, The ultimate migration. A muovere i due scienziati è stata la fantascienza, su tutti Jules Verne, ovvero gli stimoli, i pungoli e le ispirazioni che la fantasia degli scrittori pongono nella mente degli scienziati. A ben raccontare tale stimolo ci pensa proprio Ciolkovskij:
All'inizio c'è necessariamente un'idea, una fantasia, una fiaba, e poi vengono i calcoli scientifici; alla fine l'esecuzione corona il pensiero. Il mio lavoro ha a che fare con la fase centrale della creatività. Più di chiunque altro, sono consapevole del baratro che separa un'idea dalla sua realizzazione, perché per tutta la mia vita ho fatto non solo molti calcoli, ma ho anche lavorato con le mie mani. Ma ci dev'essere un'idea; l'esecuzione dev'essere preceduta da un'idea, i calcoli precisi dalla fantasia.
Navi generazionali
Pioniere della diffrazione a raggi X e della bilogia molecolare, John Desmond Bernal è stato indubbiamente un bambino prodigio: all'età di sette anni, dopo aver letto Chemistry of the candle di Michael Faraday, chiese alla madre di scrivere al chimico locale per fornirle i materiali necessari per produrre ossigeno e idrogeno in casa. L'esperimento del piccolo Bernal, condotto in casa, fu quasi letale: l'incidente, però, insegnò al bambino a realizzare gli esperimenti in sicurezza (all'esterno della casa, ad esempio) e non scoraggiò il suo interesse per la scienza(1).
Nel corso degli anni sviluppò, anzi, una concezione politica molto simile a una sorta di socialismo scientifico2, che ritenne la struttura politica essenziale non solo per una Terra unita sotto un unico governo, ma anche per viaggiare nello spazio. La sua idea era, però, la realizzazione della così detta nave generazionale(1), che venne descritta per la prima volta proprio dallo stesso Bernal in un saggio del 1929(2).
Una nave spaziale di questo genere si basa sull'idea che un gruppo più o meno nutrito si metta in viaggio verso le stelle dotata di un sistema completamente autosufficiente nella produzione dell'energia e delle materie prime essenziali per il mantenimento della vita dell'equipaggio. Poiché il destino della nave è viaggiare per un tempo indefinito, l'equipaggio sarà costituito da veri e propri coloni, che proseguiranno la razza nel corso del loro viaggio spaziale, probabilmente senza mai fermarsi veramente da qualche parte, ma alleggerendo il peso del tasso di crescita della popolazione lasciando sui pianeti abitabili coloro che sentiranno l'esigenza di esplorare nuovi mondi(3).
La realizzazione di una nave di tal genere può avvenire in modi differenti: ad esempio, come suggerisce Bernal, costruendola direttamente nello spazio utilizzando i minerali a disposizione nello spazio e presenti negli asteroidi(1). Oppure, come suggerisce ad esempio Leslie R. Shepherd(4), si potrebbe catturare un asterioide sufficientemente grande da scavare al suo interno per ricavare gli ambienti per la vita quotidiana dei pionieri, dotarlo di un motore, magari nucleare, e degli strumenti astronomici per osservare l'universo alla ricerca di un buon posto dove dirigersi.
Ovviamente l'idea era molto ghiotta per qualunque scrittore di fantascienza, visto che la nave generazionale fornisce un ottimo strumento per percorrere in maniera plausibile le distanze interstellari e al contempo raccontare storie, come ad esempio in The living galaxy di Laurence Manning o Space for industry di John W. Campbell. Tra le opere divulgative si segnala anche Islands in space: the challenge of the planetoids di Dandridge Cole, libro forse non molto interessante, per come lo recensisce Frank Edmondson su Science, ma che ha il pregio di descrivere da un punto di vista un po' più scientifico la cattura di meteoriti e asteroidi proprio con l'obiettivo del viaggio interstellare, e che il recensore definisce la parte più controversa(5).
Su questa linea, però, la proposta più interessante è indubbiamente quella di Freeman Dyson, che per gli appassionati di fantascienza e i sognatori dei viaggi interstellari ha fornito un bel po' di materiale per alimentare i nostri sogni. Corre, infatti, l'obbligo di citare le sfere di Dyson, che ho avuto modo di approfondire, mentre in questa sede non posso non citare l'albero di Dyson, una pianta geneticamente modificata per poter essere in grado di crescere sulla superficie di una cometa. Come ricorda il famoso fisico teorico, le comete posseggono tutti gli elementi necessari per permettere alla vita di prosperare sulla sua superficie. Da qui la proposta di utilizzarle per viaggiare nello spazio, viste anche le loro orbite solitamente molto eccentriche.
Probabilmente è proprio questa idea che ha fatto sognare molti relativamente a ʻOumuamua, il primo oggetto interstellare scoperto all'interno del sistema solare. Osservato per la prima volta il 19 ottobre del 2017 dall'astronomo canadese Robert Weryk mentre si trovava presso l'osservatorio hawaiano di Haleakala, prende il nome dalla parola locale che indica l'esploratore. Un recente studio dei segnali provenienti da questo pezzo di roccia proveniente dallo spazio esterno al nostro sistema solare ha, però, mostrato la completa assenza di segnali artificiali(6), e dunque ʻOumuamua non è l'equivalente di una cometa di Dyson o di una qualche nave generazionale aliena.
Propulsione nucleare e vele solari
Dyson, però, si ritrovò in qualche modo coinvolto anche in un ambizioso progetto chiamato Orion. Nel 1958, infatti, insieme con Ted Taylor guidò un gruppo per lo sviluppo e la realizzazione di un razzo con motore nucleare basato sui progetti e i calcoli svolti tra il 1946 e il 1947 da Stanislaw Ulam e Frederick Reines. In effetti il razzo era progettato con una combinazione tra i motori usuali e quelli nucleari che avrebbero fornito la spinta nello spazio per dirigersi verso il punto dell'universo designato. Il progetto, però, presentava una serie di problemi, come l'uso di esplosioni atomiche ripetute, l'eventuale creazione di turbolenze, che non era ben chiaro se avrebbero fornito disturbo o meno alla propulsione stessa e vari altri piccoli problemi, non ultimo l'impossibilità di effettuare un test del razzo prima di mandarlo nello spazio.
La Orion, con le sue dimensioni massime previste di venti chilometri, i cui progetti vennero vagliati da Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick per l'astronade di 2001 odissea nello spazio, ci porta nel mondo delle astronavi colossali, come quelle proposte dall'astronomo Maurice G. de San in The ultimate destiny of an intelligent species. In questo caso de San propone dei veri e propri mondi viaggianti nello spazio, delle relativamente piccole biosfere artificiali autonome e autosufficienti di struttura cilindrica lunghe 200 chilometri e del diametro di 12 chilometri popolate da dieci milioni di abitanti. Anche in questo caso gli asteroidi avrebbero fornito la materia prima per la costruzione della nave.
In qualche modo a tirare le fila di tutto ciò ci pensarono Antony Martin e Alan Bond che nel 1984 proposero la realizzazione di una vera e propria flotta di astronavi-mondo dove trasportare quanto più possibile del pianeta d'origine e della propria cultura, animali inclusi. Nel progetto era anche prevista la presenza di un piccolo oceano, profondo all'incirca un chilometro, dotato anche di pesci e mammiferi acquatici come balene e delfini. Anche in questo caso la propulsione prevista era atomica o fotonica.
Alternativa alla propulsione fotonica c'è quella basata sulle vele solari, ovvero degli strumenti in grado di sfruttare la pressione di radiazione del Sole in particolare e delle stelle in generale. Tale sistema di propulsione venne proposto in maniera più o meno ripetuta da vari scienziati sin dai tempi di Johannes Kepler, ma forse uno dei progetti più interessanti è quello di Carl Atwood Wiley non foss'altro per la rivista dove venne pubblicato l'articolo in cui proponeva il sistema: Clipper ships of space, questo il titolo dell'articolo, uscì nel 1951 su Astounding Science Fiction, la rivista di fantascienza diretta da John Campbell, scritto con lo pseudonimo di Russell Saunders. E per il decennio era da considerarsi un'idea abbastanza innovativa e sicuramente alternativa, visto che ben pochi erano gli ingegneri che avrebbero scommesso sullo sviluppo di un sistema di navigazione senza alcun genere di carburante. Tra l'altro l'idea venne ripresa sette anni più tardi da Richard Lawrence Garwin, che sviluppò le prime specifiche tecniche per le vele solari. Alcuni decenni più tardi (1990) fu poi Robert Lull Forward a proporre un brevetto su un dispositivo del genere, accreditando però l'idea proprio a Wiley. Magari in futuro riusciremo a costruire delle navi spaziali molto simili a quelle dei gioviani nella serie di storie con Paperino protagonista realizzate da Luciano Bottaro, ma nel frattempo dobbiamo accontentarci dei pannelli solari, che raccolgono l'energia che serve alla Stazione Spaziale Internazionale o ai nostri satelliti di avere la necessaria energia elettrica per poter funzionare.
Questo più o meno breve excursus spaziale iniziato dal power metal dei Gamma Ray e finito con i mangiatori di metallo del Giove disneyano è abbondantemente ispirato al saggio Migrare verso le stelle di Fabio Feminò posto in appendice all'edizione italiana di Universi in fuga di Charles Sheffield.
  1. Simone Caroti, The Generation Starship in Science Fiction: A Critical History, 1934–2001 
  2. John Desmond Bernal, The World, the Flesh & the Devil. An Enquiry into the Future of the Three Enemies of the Rational Soul 
  3. Isaac Asimov, Civiltà extraterrestri (recensione
  4. L.R. Shepherd, Interstellar flight (pdf
  5. Edmondson, F. K. (1965). Islands in Space: The Challenge of the Planetoids. Dandridge M. Cole and Donald W. Cox. Chilton, Philadelphia, 1964. xii+ 276 pp. Illus. $6.95. 
  6. Harp, G. R., Richards, J., Jenniskens, P., Shostak, S., & Tarter, J. C. (2018). Radio SETI observations of the interstellar object′ OUMUAMUA. Acta Astronautica. doi:10.1016/j.actaastro.2018.10.046 (arXiv

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