Tutti insieme appassionatamente
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Durante la lezione Bose commise un errore abbastanza banale da trovare per chiunque avesse delle basi statistiche ma che portò alla fine a una predizione in accordo con i risultati sperimentali. Questo suggerì a Bose che forse quello non era da prendersi come un errore, ma come l'indizio della soluzione del problema. In pratica egli si rese conto che la distribuzione di Maxwell-Boltzmann, una particolare funzione matematica utilizzata per descrivere la velocità delle particele di un gas ideale, non poteva essere considerata vera per tutte le particelle microscopiche a tutte le scale. A quel punto Bose studiò la probabilità di trovare una particella in vari stati: la posizione e il momento delle particelle non erano considerate separate ma come un unica variabile.
Questo modo di descrivere i fotoni risultava particolarmente efficace, oltre che esatto, e questo perché i fotoni sono indistinguibili uno dall'altro: non è possibile trattare due fotoni con la stessa energia come due fotoni distinti. Torniamo alla storia: Bose trasformò la sua lezione in un breve articolo che sottopose a. Philosophical Magazine, che però rifiutò il lavoro del fisico e matematico indiano. A quel punto Bose mandò l'articolo ad Einstein chiedendogli di poterlo pubblicare su Zeitschrift für Physik. Einstein non solo valutò positivamente l'articolo del collega, ma lo tradusse personalmente dall'inglese al tedesco(1): era il 1924, il primo passo della statistica di Bose-Einstein che ci permette di descrivere i bosoni, particelle con la caratteristica di potersi "affollare" uno sull'altro senza alcun problema: in pratica inquilini in grado di abitare un appartamento piccolissimo senza problemi di spazio.
Distanziamento particellare
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Tale posizione nasceva da molte osservazioni, come quelle del 1916 del chimico-fisico Gilbert Lewis, secondo cui l'atomo tende a contenere un numero pari di elettroni in un dato guscio, ad esempio otto elettroni che si dispongono agli otto angoli di un cubo. Nel 1919 il chimico Irving Langmuir suggerì che la tavola periodica poteva essere facilmente spiegata supponendo che gli elettroni di un atomo si raggruppano in un qualche modo, ad esempio in una serie di gusci concentrici intorno al nucleo. Infine nel 1922 Bohr aggiornò il suo modello atomico introducendo i così detti "gusci chiusi" stabili costituiti da determinati numeri di elettroni, tutti pari (2, 8, 18, ...).
Pauli, però, non si accontentava delle spiegazioni fenomenologiche come quella del modello di Bohr, per cui si mise a cercare una risposta a questo comportamento. La risposta gli venne cercando di capire i risultati sperimentali dell'effetto Zeeman, in particolare grazie a un articolo del 1924 di Edmund Stoner che aveva trovato scoperto che, a parità di numero quantico principale, il numero di elettroni dei livelli di energia degeneri dei metalli alcalini e il numero di elettroni nel guscio chiuso dei gas nobili è identico.
Dovete sapere che le particelle vengono identificate tramite alcuni numeri detti quantici che ne identificano alcune particolari proprietà. In quel periodo erano noti tre numeri quantici: $n$, il numero quantico principale; $l$, il numero quantico azimutale; m_l il numero quantico magnetico. Pauli comprese che per descrivere gli elettroni nell'atomo (e più in generale tutti i fermioni) era necessario aggiungere un nuovo numero quantico a due valori(2), che venne successivamente identificato come spin da Samuel Goudsmit e George Uhlenbeck.
Introdotto questo quarto numero quantico, il principio di esclusione di Pauli è presto detto:
All'interno di un orbitale (un guscio nella terminologia di Lewis) non possono coesistere due elettroni con gli stessi numeri quantici.
Questo numero è diretta conseguenza del fatto che lo spin è un numero quantico a due valori.
- Bose, S.N. (1924), Plancks Gesetz und Lichtquantenhypothese, Zeitschrift für Physik, 26 (1): 178–181, doi:10.1007/BF01327326 ↩
- Pauli, W. (1925). Über den Zusammenhang des Abschlusses der Elektronengruppen im Atom mit der Komplexstruktur der Spektren. Zeitschrift für Physik. 31: 765–783. doi:10.1007/BF02980631 ↩
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