
Great Pacific, fumetto di Joe Harris e Martin Morazzo tra #politica, #ecologismo e #misticismo: una salsa non completamente efficace
Great Pacific di
Joe Harris e
Martin Morazzo è costruito, come molte serie televisive, con l'intreccio narrativo di temi differenti. Tutto, però, ruota intorno al nodo centrale della così detta
grande chiazza di immondizia del Pacifico, interpretata come una sorta di isola di lattine e altri rifiuti plastici di vario tipo. Una interpretazione grafica e narrativa che, come vedremo, è errata e fuorviante, che poi è solo uno dei problemi di
Great Pacific.
La grande chiazza di immondizia del Pacifico
A partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, le nazioni industrializzate e quelle in via di sviluppo hanno riversato in mare detriti e spazzatura di tipo plastico. I materiali plastici, a differenza di quelli organici, subiscono un processo detto di
fotodegradazione, ovvero, a causa dell'azione della luce del sole, si disintegra
(...) in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono, la cui ulteriore biodegradazione è molto difficile.(1, 2)
Così scomposta, la plastica ottiene delle dimensioni e un
comportamento idrostatico simile a quello del plancton, e viene così facilmente catturata e digerita dagli abitanti del mare, entrando nel ciclo alimentare. Il problema non sarebbe ingestibile, o comunque non di proporzioni eccessive se non fosse che, come mostrato in uno studio del NOAA di
Robert Day,
David Shaw e
Steven Ignell(3), il gioco di correnti nell'Oceano Pacifico avrebbe dovuto creare un'area in cui tutta la plastica si sarebbe raccolta creando la ben nota
grande chiazza di immondizia del Pacifico, nome proposto per la prima volta dall'oceanografo
Curtis Ebbesmeyer(2). La sua estensione non è nota precisamente, e questo è dovuto a un fatto semplice ma apparentemente non così banale, visto che sovente si parla di isola:
semplicemente non lo è. E' una chiazza dai contorni indistinti, un vortice di immondizia i cui bordi, almeno quelli visibili, dipendono dalle correnti e dalla quantità di immondizia presente (stimata in 3.5 milioni di tonnellate
(1)). E' ovvio che, a causa della fotodegradazione non è possibile essere certi dei propri occhi, anche se l'osservazione diretta è sempre meglio di una simulazione. In questo senso senza
Charles Moore(2) oggi della
grande chiazza si ignorerebbero probabilmente non pochi dettagli. Moore che, tra l'altro, ha fondato l'
Algalita Marine Research Foundation proprio per tenere sotto controllo questa particolare chiazza, ma anche
le altre sparse negli altri oceani della Terra, e ha anche mostrato come il rapporto plastica-plancton dell'area sia di 6 a 1.
Nonostante questi numeri, la
grande chiazza è un ecosistema che vibra di vita, in particolare microscopica, definito dai ricercatori
plastisfera(4), costituita da innumerevoli specie di diversi organismi (dando un'occhiata all'articolo di Zettler e soci ho spannometricamente contato circa 150 specie differenti di batteri), di cui alcuni potenzialmente dannosi.
Il problema della
grande chiazza e delle sue sorelle non è di facile risoluzione e, a mio parere, le azioni di sensibilizzazione, come l'installazione artistica di
Maria Cristina Finucci, il
Garbage Patch State patrocinato dall'UNESCO, non sono per nulla sufficienti al momento per invertire la tendenza. Il problema è, infatti, essenzialmente economico.
In questa fase storica, infatti, il maggiore contributo alla plastica oceanica
proviene dai paesi in via di sviluppo, Cina e India in testa. Il motivo di questa alta produzione è in parte da ricercarsi nella popolazione costiera, ma soprattutto in un particolare problema strutturale interno di questi paesi. E' infatti emerso dall'esame che 16 dei primi 20 produttori di immondizia hanno sì avuto un grande e veloce sviluppo economico, affiancato però da una mancanza nello sviluppo e nella gestione delle infrastrutture dedicate alla spazzatura
(5).
Quando si vanno a fare le proiezioni di crescita della spazzatura nel mondo, dato per buono un modello in cui i paesi si svilupperanno in maniera più o meno identica uno con l'altro, sarà molto difficile arrivare a un picco di produzione prima del 2100, mentre la quantità di plastica che verrà immessa negli oceani dovrebbe oscillare tra le 100 e le 250 milioni di tonnellate
(5). Sono numeri spaventosi, cui non si può sperare di porre un limite con, per esempio, il controllo della popolazione. D'altra parte sarà difficile anche limitare la crescita economica dei paesi in via di sviluppo (posizione che non viene nemmeno presa in considerazione), quindi, nell'attesa che tali paesi, oggi Cina e India, domani i paesi costieri africani, sviluppino dei sistemi di smaltimento dei rifiuti efficienti, i paesi industrializzati
(...) possono agire immediatamente riducendo gli sprechi e riducendo la crescita della plastica mono-uso.(5)
Onestamente la soluzione più semplice e logica che ridurrebbe drasticamente la previsione dei ricercatori sarebbe quella di fornire supporto tecnico ai paesi in via di sviluppo, ma questa soluzione, come potete immaginare, andrebbe a scontrarsi con l'economia di tipo concorrenziale imposta dai paesi industrializzati per cui gli altri non sono visti come potenziali collaboratori, ma come affamati concorrenti.